Trascendendo il suo tempo, Beccadelli continua a insegnare al mondo che la letteratura è stata – e ancora può essere – il solo modo per parlare degli istinti; che la letteratura ammette nello spazio del sociale le inclinazioni di ciascuno, anche le più difficili da comprendere e da definire sul piano della morale, a cominciare dal sesso. Non si sottolineerà mai abbastanza che la poesia e la prosa per secoli hanno svolto il compito di rappresentare la diversità e l’eccezione e di affermarle, se non come alternative, sì come realtà possibili. L’Ermafrodito, ispirato o no che sia da vicende dell’autore, dice quegli amori e quegli affetti che nessun altro può o vuole dire, se non nella forma del rifiuto. È, a suo modo, una rivendicazione. Qualunque rivendicazione, alla fine, non è che un appello alla dignità assoluta della parola umana. Solo così, al livello superiore della formulazione linguistica, ben oltre il preteso spazio della biografia (che chissà poi cos’è), arte e vita diventano una cosa, e la verità si identifica non con il verbale dei peccati personali, ma con la libertà di tutti.
Dall’Introduzione di Nicola Gardini.
Antonio Beccadelli nacque nel 1394 a Palermo, da cui il nome umanistico di Panormita. Scrisse gli ottanta epigrammi dell’Hermaphroditus negli anni Venti del Quattrocento, quando soggiornava in Toscana. Successivamente diventò poeta di corte presso i Visconti e fu professore di retorica a Pavia (dove insegnava soprattutto l’amato Plauto). Nell’ultimo periodo della sua vita si spostò a Napoli, dove fondò il Porticus Antonianus (poi diventata Accademia Pontaniana in onore di Giovanni Pontano, che gli succedette) e dove morí nel 1471. Oltre all’Hermaphroditus, scrisse diversi libri di Epistolae e il De dictis et factis Alphonsi regis, sulle gesta di Alfonso d’Aragona.
Il Panormita, Ermafrodito [Hermaphroditus], traduzione e a cura di Nicola Gardini, Einaudi 2017, pp. XVI – 207, ISBN: 9788806224950